Se tutti gli alimenti spacciati e venduti come italiani nel mondo fossero davvero prodotti nel Belpaese, l’industria nazionale della tavola potrebbe dare lavoro a 300mila persone in più e un disoccupato su dieci avrebbe una occupazione. Lo ha calcolato Coldiretti, esperimento nel freddo ma significativo linguaggio dei numeri quanto potrebbe succedere alla filiere agroalimentare italiana se i 60 miliardi di euro che vale il giro d’affari globale dell’italian sounding (leggi prodotti contraffatti o imitati) fossero riassorbiti da produzioni nostrane. Una cifra gigantesca, pari al doppio del valore delle esportazioni nazionali del settore, che si assesta sui 33-34 miliardi di euro.
Peraltro, a onor del vero, il problema non è imputabile solo all’estero. Anche in Italia la contraffazione sottrae risorse e toglie valore al made in Italy. Basti pensare che nei supermercati italiani due prosciutti su tre sono prodotti con carni straniere, e lo stesso dicasi per tre cartoni di latte a lunga conservazione su quattro e per metà delle mozzarelle, prodotti usando cagliate provenienti dall’estero.
A controllo e sequestro deve essere affiancata l’attività di prevenzione, volta a smascherare imitazioni e falsi, partendo dall’etichetta, sui cui va indicata l’origine delle materie prime. Ma qui sorge un altro problema perché le regole in materia si fanno in Europa, e attualmente le norme comunitarie impongono di specificare la provenienza degli alimenti solo in alcuni casi.
Un gruppo di europarlamentari, tra cui alcuni italiani, ha chiesto di rimettere mano al testo, ma non sarà un tema che si risolverà in tempi stretti. Non resta per il momento che sperare nella vetrina di Expo…