Non è necessario essergli stato amico e neppure cliente affezionato, di quelli che di “risotti in foglia d’oro e zafferano” ne hanno gustati magari parecchi – in uno dei ristoranti in cui, bastava vederlo all’opera, anche solo per definire un dettaglio prima di far portare un piatto in tavola – per capire lo spessore, ancor prima che professionale umano, del signor Gualtiero Marchesi, come lo hanno sempre chiamato molti dei suoi discepoli, anche quelli che, sotto la sua guida, sono diventati a loro volta cuochi stellati – con e, soprattutto, senza televisione al seguito.
Perché al Maestro scomparso ieri a 87 anni (a volte si scherniva a sentirselo dire, ma in fondo forse gli faceva piacere…) l’autorità non derivava dall’abilità nel “lancio del piatto” sotto i riflettori di un reality e neppure dal numero delle stelle Michelin che, come noto, a un certo punto aveva “riconsegnato”, ma da una lunga gavetta: dopo la bocciatura all’istituto tecnico “Feltrinelli” di Milano, il giovane Gualtiero era andato in Svizzera, dove dal 1948 al ‘50 frequentava la scuola alberghiera di Lucerna, per poi imparare i rudimenti del mestiere nel ristorante di famiglia “Mercato”, e quindi espatriare con moglie e figlie al seguito in Francia, per perfezionarsi con i maestri transalpini, così da poter aprire nel ’77 il suo ristorante di via Bonvesin de la Riva, dove arrivano nel giro di due anni le prime due stelle della guida rossa e, nel 1986, primo italiano, tre. È la definitiva consacrazione: di qui in poi articoli, copertine, premi e riconoscimenti al padre della nouvelle cuisine italiana, la “cucina totale”, dove il segreto, come insegnava Coco Chanel, sta nel togliere non nell’aggiungere.
Dopo l’esperienza del Relais&Chateaux L’Albereta, progetto di ristorazione e alloggio di lusso creato nel 1993 in Franciacorta dove perde una stella Michelin (“poco male”, commenta con la consueta ironia, “ogni volta che cade una stella esprimo un desiderio”), nel 2008 Marchesi rientra nel capoluogo lombardo con il ristorante Teatro alla Scala – Il Marchesino e rinuncia ai punteggi di tutte le guide. Approda anche in tv il Nostro, non per “venedere illusioni” come in tante trasmissione a suo parere, ma per diffondere con la potenza del medium il sapere di una vita.
Infatti, come ogni buon maestro, Marchesi, che era nato a Milano nel 1930 da genitori provenienti da San Zenone al Po in provincia di Pavia, sente l’esigenza di tramandare i suoi segreti: “I giovani sono come spugne: assorbono assorbono e un giorno rilasceranno”, diceva. Di qui la nascita nel 2004 dell’ALMA, la Scuola Internazionale di Cucina Italiana con sede in Colorno (Parma), di cui è rettore fino al settembre 2017, quando è entrato nella presidenza del comitato scientifico per dedicarsi al progetto della creazione di una casa di riposo per cuochi a Varese (aprirà nel 2018) sul modello di quella per musicisti voluta da Giuseppe Verdi: non per nulla è la musica la sua seconda grande passione, cui si dedicava tra una pausa ai fornelli e l’altra, prendendo lezioni di piano; “ma è troppo distratto”, diceva l’insegnante privata Antonietta, che diventerà sua moglie.
L’amore per il bello torna protagonista fuori o meglio accanto alla cucina con la creazione nel 2010, in occasione dei suoi ottant’anni, della Fondazione Gualtiero Marchesi, che ha come missione la diffusione del bello e del buono in tutte le arti, dalla scultura alla cucina, dalla musica alla pittura, da cui Marchesi stesso trae ispirazione: a Pollock, ad esempio, si rifà il “dripping” di pesce, una composizione di calamari, vongole e telline pennellati con il nero di seppia.
“Milano gli deve moltissimo” ha commentato la notizia della scomparsa il sindaco Giuseppe Sala. È verissimo. Marchesi era un faro all’ombra della Madonnina anche quando, prima di Masterchef & C. e di Expo, Milano non era una delle capitali del cibo. Adesso lo sta diventando anche grazie ai “Marchesi Boys” (tra gli altri Enrico Crippa, Carlo Cracco, Andrea Berton, Davide Oldani, Ernst Knam, Riccardo Camanini, Pietro Leemann), alcuni dei cuochi più rinomati del momento che da lui hanno appreso l’arte culinaria. Non per nulla anche il primo cittadino della metropoli che l’aveva insignito con l’Ambrogino d’oro ha ricordato “la sua volontà di insegnare ai tanti giovani chef che sono passati dai suoi ristoranti”.
È utile allora riportare quanto scritto dallo stesso Marchesi per spiegare l’importanza dell’insegnamento, una vera vocazione accanto a quella per la cucina, che ci permetterà di continuare a gustare piatti nei quali ritroveremo ancora a lungo i sapori (e ricordi) di un Cuoco entrato di diritto nella Storia dell’Arte culinaria – con le maiuscole, ça va sans dire – di tutti i tempi.
L’esempio è la più alta forma di insegnamento
Se è vero che il futuro dipende da ognuno di noi, allora il futuro è già.
L’unico modo per intravederne le mosse è di fare un passo indietro.
Nel caso della cucina, un passo indietro fino alle radici dei nostri sapori.
Guardarsi in casa, ricordare, perché un presente senza memoria è pericoloso.
Chi ricorda sa e allora può attualizzare un piatto, renderlo moderno senza tradirne lo spirito.
Non sopporto chi ingolfa le ricette con una quantità inverosimile di ingredienti, possibilmente molto cari.
È chiaro che, rispetto ai bisogni e ai gusti di cinquant’anni fa, andiamo verso una maggiore semplicità da cui dipende l’attrazione dei giovani verso le cucine orientali.
Naturalmente, c’è anche il rovescio della medaglia, quando si scivola dalla semplicità all’omologazione.
Per questo mi interessa conoscere cosa mangiano i giovanissimi, ripartendo da lì, da una diversità spesso negata.
Non esiste, a mio giudizio, una cucina alta o bassa, ma una cucina che, a qualsiasi livello, si divide salomonicamente in cucina buono o cattiva.
Anche un panino sa essere pessimo, oppure dirti qualcosa, al di là dell’immediato soddisfacimento della fame.
Qualche giorno fa, ho visto in via Madonnina, a Milano, una testa scolpita così essenziale che oltre non si poteva andare.
Un esempio di purezza, dove non c’è più margine per modificare. Che bello!
Quando provi questa emozione significa che nella semplicità affiora anche una parte di invisibile.
Significa che il diversamente buono e il diversamente bello hanno, per un attimo, trovato la forma in cui esprimersi.
Per i cuochi, quelli veri, la materia è il fine e il mezzo della loro arte.
Nella materia è già suggerita la composizione.
Penso di essere un buon maestro, visto i risultati ottenuti dai miei discepoli.
Per insegnare non bisogna avere segreti e incontrare qualcuno che si ponga continuamente delle domande.
Intanto, abbiamo gettato le basi di un’Accademia che rappresenterà la parte propulsiva della Fondazione Gualtiero Marchesi, e in quell’ambito vorrei coinvolgere tutti i miei discepoli.
Una bella compagnia di cervelli, per non parlare dei caratteri.
Gualtiero Marchesi